Come insegnare l'intelligenza
INSIEME (ottobre 1992)
Come insegnare l'intelligenza
Uno studioso di fama internazionale, Reuven Feuerstein, ha accertato con una scoperta di portata rivoluzionaria che l'intelligenza pui essere insegnata, e quindi aumentata, fin dai primi anni di vita. In questo dossier presentiamo il personaggio, il suo metodo, i principi che tutti noi possiamo seguire coni nostri figli giorno per giorno
A vederlo, il professor Feuerstein, psicologo, conosciuto in tutto il mondo, dà un'impressione elicoidale. In testa un grande basco nero, come quello che portavano i pittori parigini agli inizi dei secolo. Il corpo si allarga in vita per poi affusolarsi di nuovo, come un razzo. Ci si aspetta che, da un momento all'altro, cominci a ruotare su se stesso e schizzi via, perdendosi nello spazio, spinto dal turbinio di idee che si agitano dietro la maschera patriarcale dei suo volto.
Reuven Feuerstein è un uomo fuori del comune, ricco di qualità contrastanti. E dissacratore e tradizionalista. Materno e spietato. Ingenuo e astuto. Dopo aver subito anni di ostracismo, diffidenze e boicottaggi, le sue idee cominciano oggi a essere accettate. I suoi libri sono stati tradotti in quindici lingue, compreso il cinese. Ventotto università sparse in tutto il mondo, dal Belgio al Cile, si sono associate al suo istituto. Più di 100.000 bambini, ogni anno, seguono i suoi corsi.
Ma che cosa dice Feuerstein per suscitare da una parte tanta diffidenza e dall'altra le adesioni più entusiastiche? Una cosa tanto semplice quanto rivoluzionaria: l'intelligenza può essere insegnata. Non è un'eredità immodificabile che ciascuno di noi si porta dietro per sempre, senza possibilità di evoluzione. E invece un insieme di abilità e di processi mentali che ci permettono di dare un senso al mondo e di acquisire le informazioni per risolvere i problemi che ci vengono posti. Un fenomeno dinamico, insomma, che si può imparare. Di conseguenza, non è vero e non è giusto che bambini con gravi problemi psicologici, comportamentali o medici debbano rimanere confinati in un ghetto, marchiati per tutta la vita come disadattati o subnormali,
esclusi dall'inserimento nella vita sociale.
Ha un bassissimo quoziente intellettivo. E allora?
Si era nell'immediato dopoguerra. Feuerstein, ebreo romeno, era scampato dai campi di concentramento nazisti. Approdato in Israele, si trovò a doversi occupare, come psicologo, dei bambini sopravvissuti ai campi di sterminio, strappati ai genitori o testimoni della loro morte nelle camere a gas. Molti di essi, privati per anni di qualsiasi esperienza umana, avevano gravi problemi di apprendimento. I test psicologici fornivano risultati impietosi. Il quoziente d'intelligenza (Q.I, calcolato su 100 punti) spesso non superava 70 punti. Stando alle tabelle, dovevano definirsi deficienti. Con testarda pazienza Feuerstein cercò di penetrare il muro di apatia che il terrore aveva costruito attorno a questi bambini. E ci riuscì. Lentamente cominciarono a cambiare, a imparare. Nel giro di qualche anno poterono essere reinseriti nelle classi normali.
Chi aveva ragione? I test o Feuerstein? I fatti erano inequivocabili, davano ragione al professore. Qualcosa nei test non funzionava. «C'è un equivoco fondamentale», racconta lui. «I test ci dicono quanto un bambino ha già imparato. Non ci dicono nulla delle sue possibilità di apprendimento. Seguendo questa mia convinzione ho sviluppato un esame che non vuole fotografare il bambino così come è, ma cercare di misurare la sua capacità di imparare: il PAD, Potential Assessment Device».
Gli psicologi di tutto il mondo rimasero scandalizzati. Anche perché Fenerstein volutamente viola tutte le regole della cosiddetta obbiettività scientifica. Durante i test interviene, incoraggia il bambino, lo loda se fa bene, lo orienta se prende una direzione sbagliata. «Come si fa», si chiede, «a dare un test a un bambino emarginato, rifiutato da tutti, chiudendolo in un'aula davanti a un istruttore muto e impassibile come una statua? Va confortato. Aiutato. Consolato. Allora, forse, riuscirà ad aprirsi».
Una scoperta rivoluzionaria: tutti possiamo diventare intelligenti
Con gli accademici che criticano i suoi metodi Feuerstein può essere spietato. «Albert, 11 anni, faceva parte di un gruppo di 5 fratelli mentalmente deboli», racconta. «Aveva un Q.I di 60. L'ho sottoposto al PAD e ho scoperto che imparava con estrema rapidità. Dopo 12 mesi sono riuscito a inserirlo in una scuola agricola normale. Uno psicologo lo sottopose ai test classici e trovò un Q.i. di 70. "Venga", dissi allo psicologo. "Faccia questi esercizi". Erano gli esercizi che Albert aveva imparato ad eseguire. Lo psicologo non riuscì a finirli tutti. "Albert li fa meglio di lei", commentai».
Con gli anni, partendo dal concetto che l'intelligenza può essere modificata e che si possono insegnare i processi intellettivi necessari a svilupparla, Feuerstein sviluppò un metodo basato su gruppi di esercizi atti a stimolare le capacità intellettive del bambino. Dopo i superstiti dei campi di sterminio, dovette occuparsi degli immigrati che a ondate successive arrivavano in Israele da regioni particolarmente arretrate. Prima i marocchini, poi gli yemeniti e, da poco, gli etiopi. La sua fama non rimaneva limitata ad Israele. Da ogni angolo del mondo si rivolgevano a lui genitori di bambini con problemi non solo intellettivi e comportamentali, ma anche di origine genetica.
«Fino a vent'anni, fa», confessa Feuerstein, «in alcuni casi mi davo per vinto. Davanti a gravi problemi generici, pensavo di non potere fare nulla. Finché incontrai Vitalba».
«Caro professore, per tutta la vita mi hanno detto: non sei capace di far niente»
«Veniva dall'Italia, aveva 12 anni. Totalmente abulica. Non parlava. Non prendeva alcuna iniziativa se la madre non la conduceva per mano. Le chiesi di tirare fuori la lingua e non riuscì a farlo. "Non posso fare niente per lei", ammisi. La madre ebbe uno scatto di ribellione. "No!" esclamò. "Professore faccia qualcosa perché io non accetterò mai che Vitalba rimanga così". La accolsi, poco convinto, più che altro per accontentare la madre. Dopo un anno la ragazza sapeva leggere, scriveva scegliendo le lettere e componendole su una lavagna magnetica. Riusciva a fare dei calcoli. Fu per me uno schiaffo. Poi cominciai a farla lavorare con il computer. Faceva progressi ma aveva sempre bisogno che la madre la stimolasse, la facesse uscire dall'abulia. Un giorno dissi a Vitalba: "Come mai una bambina intelligente come te ha sempre bisogno della mamma per lavorare?" Dopo un po' di tempo ricevetti una lettera, diceva: "Caro onorevole professore, se per tutta la vita lei fosse vissuto con gente che continuava a dirle che non era capace di nulla e la madre fosse stata l'unica persona a credere in lei, allora anche lei, onorevole professore, avrebbe avuto bisogno di sua mamma". Questo è stato il secondo schiaffo. Per formare una persona bisogna credere alle sue capacita. Allora tutto diventa possible. Ho imparato la lezione della mamma Vitalba. E oggi non dispero più di nessuno. Cerco di fare del mio meglio». Il professor Feuerstein non è così ingenuo da credere nei miracoli. Se le difficoltà all'apprendimento hanno una causa traumatica o genetica, come nel caso dei bambini affetti dalla sindrome di Down, non ci si può aspettare che arrivino a livelli uguali a quelli di un bambino normale. Possono però inserirsi nella società e svolgere ruoli socialmente utili. Presso il Centro internazionale per lo sviluppo del potenziale di apprendimento, l'Icelp, diretto da Feuerstein a Gerusalemme, ragazzi con gravi handicap, anche di tipo motorio, assistono anziani affetti dal morbo di Alzheirner.
«La cosa che più mi ha commosso», ha raccontato il regista Gianfranco De Bosio dopo una visita al Centro, «è stato vedere questi ragazzi. Io credo che nessun infermiere specializzato, nessun medico, nessun professore, forse nemmeno quelli che lavorano con Feuerstein, sarebbero così attenti, delicati, direi raffinati nel condurre questi vecchi lungo i gradini. Non riesco a dimenticarli. Avevano grazia, sensibilità, amore!».
Si comincia a pensare guardando il volto della mamma
Una speranza per i bambini di tutto il mondo che hanno gravi difficoltá
Oggi nei dintorni di Gerusalemme sta sorgendo la nuova sede dell'Icelp. Corsi di specializzazione per gli insegnanti, laboratori attrezzati per la diagnosi di bambini con difficoltà cognitive, un residence dove oltre 150 ragazzi possono seguire corsi intensivi. Psicologi, pediatri, neurologi, antropologi e criminologi vi sviluppano strategie innovative, tecniche d'insegnamento, procedure di valutazione.
Feuerstein per le sue diagnosi non vuole essere pagato. «Non voglio che il mio maggiore o minore interesse per un bambino venga condizionato dal fatto che i suoi genitori abbiano più o meno soldi». Il denaro arriva da fondazioni, donazioni e dai diritti di copyright per i corsi. «Oggi», osserva Feuerstein, «esistono apparecchi e sistemi sofisticatissimi. Ma non vengono utilizzati perché fondamentalmente non se ne sente il bisogno». Con il suo centro, Feuerstcin ha fatto una scommessa. La vincerà?